ALLA SCALA
Novecento in palcoscenico per l’ultima chiamata di danza della stagione. Il Piermarini ha presentato un trittico, formula vincente per brani di breve durata ma di forte impatto. L’itinerario ha proposto: l’adamantino Balanchine di “Symphony in C” del 1947 su musica di Bizet, rilucente oggi per la bella interpretazione di Nicoletta Manni, la più balanchiniana del gruppo e Claudio Coviello il più perfetto. Poi ecco l’avvincente “Petit Mort” del 1991, su musica di Mozart. Celebre brano d’alta scuola di coreografia è amatissimo alla Scala e sempre ben interpretato. Bravissimi tutti i danzatori, ma Christian Faggetti è parso con una marcia in più. Conclusione in crescendo con la più celebre coreografia di Maurice Béjart, “Bolero”. Quest’ultima proposta al pubblico in un momento particolare dell’anno: ricorre il 22 novembre il dodicesimo anno della morte del coreografo marsigliese e per questo motivo all’Istituto di Cultura Francese di Milano si è presentato il film belga “L’âme de la danse” di Henry de Gerlache e Jean de Garrigues. E’ questo un interessante documentario, confezionato nel 2017 per il decennale della scomparsa e proposto per la prima volta ora in Italia, dedicato alla creazione dei più importanti balletti di Béjart raccontati da lui stesso e da alcuni interpreti storici. Una preziosa testimonianza ricca di materiale d’epoca e inedito, scoperto in archivi anche famigliari del coreografo. Ricordiamo che molto materiale sulle sue opere fu distrutto in un incendio a Losanna. E in queste immagini non poteva mancare il “Bolero”, la sua nascita, la sua affermazione ( il successo mondiale lo si deve al film di Claude Lelouch , Les Uns et les Autres 1984). Qui per le complesse riprese a Parigi sul tetto di un grattacielo, Jorge Donn, il più leggendario interprete del balletto, lo danzò per quattro volte di seguito, e il regista testimonia “sempre meglio”. Al Teatro alla Scala ancora una volta è Roberto Bolle ad attrarre, ma ricordiamo le buone interpretazioni di Martina Arduino e di Giacchino Starace. E quelle che vorremmo vedere in una successiva ripresa, Nicoletta Manni, Christian Faggetti, Gabriele Corrado e Claudio Coviello. Perché la lama tagliente che illumina all’inizio della rappresentazione la mano dell’interprete e poi tutto il suo corpo sa risvegliare energie ed emozioni inaspettate che il ritmo incalzante delle note di Ravel poi le consegnerà al pubblico. Lascia un commento |
![]() Una civiltà nasce nel punto in cui una grande anima si desta dallo stato della psichicità primordiale di una umanità eternamente giovane e si distacca, forma dall’informe, realtà limitata e peritura di fronte allo sconfinato e al perenne. Essa fiorisce sul suolo di un paesaggio esattamente delimitabile, al quale resta radicata come una pianta. Una civiltà muore quando la sua anima ha realizzato la somma delle sue possibilità sotto specie di popoli, lingue, forme di fede, arti Stati, scienze; essa allora si riconfondecon l’elemento animico primordiale. Ma finché essa vive, la sua esistenza nella successione delle grandi epoche, che contrassegnano con tratti decisi la sua progressiva realizzazione, è una lotta intima e appassionata per l’affermazione dell’idea contro le potenze del caos all’esterno, così come contro l’inconscio all’interno, ove tali potenze si ritirano irate. Oswald Spengler, da “Il Tramonto dell’Occidente”, traduzione italiana edita da Guanda nel 1991 ![]()
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