TEATRO ALLA SCALA
Chovanščina, il lungo affresco storico scritto e orchestrato da Modest Petrovič Musorgskij con ampie rivisitazione musicali attuate negli anni da Rimskij-Korsakov, Ravel, Strawinskij e Šostakovič è andato in scena, dopo vent’anni di assenza, al Teatro alla Scala di Milano. Lo zar Pietro il Grande, al quale tutto si riconduce, ha le sembianze di un fanciullo che segue muto l’evolversi dei cruenti fatti. Corposo è il gruppo di protagonisti russi guidati con sicurezza dalla bacchetta di Valery Gergiev. L’orchestra della Scala dà una delle sue migliori prestazioni accompagnando il pubblico con colore, dolcezza e irruenza dentro i meandri di avvenimenti antichi (seconda metà del 1600). La regia di Martone e le scene di Margherita Palli li collocano però in uno spazio della memoria che vorrebbe essere attuale, anzi futuribile. Echi da Metropolis, navicelle spaziali che solcano il cielo di una disastrata periferia industriale si sommano alle rovine dell’animo umano in una lotta sanguinaria per il potere. Belle e potenti le voci dei principali interpreti che non cedono alla lunghezza dell’opera e apprezzatissima è la Marfa di Ekaterina Semenchuk; e, sebbene in lingua russa, emozionante è il socchiudere gli occhi e lasciarsi trasportare dalla musica e dal testo così ben articolato. Anche perché la scenografia è immobile, tediosa come gli abiti, scelti in modo approssimato, ma al contempo ingombranti per l’occhio e per chi li indossa. Le masse sembrano non avere una guida sicura e occupano in modo sparso il palcoscenico, ostacolando la concatenazione dei complessi avvenimenti. Eppure è proprio questa massa e cioè il grandioso coro diretto da Bruno Casoni a imporsi, forte e potente come l’anima russa, che non viene scalfita nemmeno da quella caduta di stile che sono l’interpretazione di Martone delle danze delle schiave persiane. Qui cinque prostitute si dimenano tra lap danse e giochini sadomaso. Ce le saremmo risparmiate. Aurora Marsotto Lascia un commento |
![]() Una civiltà nasce nel punto in cui una grande anima si desta dallo stato della psichicità primordiale di una umanità eternamente giovane e si distacca, forma dall’informe, realtà limitata e peritura di fronte allo sconfinato e al perenne. Essa fiorisce sul suolo di un paesaggio esattamente delimitabile, al quale resta radicata come una pianta. Una civiltà muore quando la sua anima ha realizzato la somma delle sue possibilità sotto specie di popoli, lingue, forme di fede, arti Stati, scienze; essa allora si riconfondecon l’elemento animico primordiale. Ma finché essa vive, la sua esistenza nella successione delle grandi epoche, che contrassegnano con tratti decisi la sua progressiva realizzazione, è una lotta intima e appassionata per l’affermazione dell’idea contro le potenze del caos all’esterno, così come contro l’inconscio all’interno, ove tali potenze si ritirano irate. Oswald Spengler, da “Il Tramonto dell’Occidente”, traduzione italiana edita da Guanda nel 1991 ![]()
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