TEATRO CARCANO
Deve molto questa commedia dell’inglese Harwood al celebre e omonimo film, opera prima alla regia, di Dustin Hoffman. Ora è in scena al Teatro Carcano di Milano sino a domenica 31 marzo, dopo il debutto dello scorso anno a Borgio Verezzi e una lunga tournée italiana. Il regista Patrick Rossi Gastaldi cambia l’ambientazione, o meglio ritorna a quella originale italiana che fu da ispirazione allo stesso Harwood. Dalla campagna inglese, la casa di riposo si riprende, pensiamo, le mura della storica magione milanese donata da Giuseppe Verdi ai musicisti in età. Ecco perché ogni anno nel giorno della sua morte lo si onora con un concerto degli ospiti, che per età e per tempo ci si dedicano con grande passione. La vita tranquilla, dei tre protagonisti, qui i bravissimi Giuseppe Pambieri, Cochi Ponzoni e una super Paola Quattrini, viene sconvolta dall’arrivo di Giulia (Erica Blanc), la star, la diva del bel canto e anche ex moglie di uno di loro. Gli equilibri, anche d’immagine, di questi cantanti d’opera, senza più fama e applausi, si rompono e ancora una volta, proprio a causa di Giulia, occorre rimettere in discussione età, acciacchi, il troppo tempo libero, la morte e soprattutto la voce che manca. Ruota tutto attorno al bel quartetto del Rigoletto, loro cavallo di battaglia, che li riunisce ancora una volta indomabili come ai bei tempi, dopo due atti di frizzi, battute sagaci, qualche piccolo colpo di scena e tanta nostalgia. Ma la freschezza del film, e purtroppo il confronto in queste riletture non può mancare, evapora nel secondo tempo. Manca qualche comprimario che velocizzi il racconto per questi quattro assi della recitazione, sempre piacevoli da ascoltare e da vedere. Lascia un commento |
![]() Una civiltà nasce nel punto in cui una grande anima si desta dallo stato della psichicità primordiale di una umanità eternamente giovane e si distacca, forma dall’informe, realtà limitata e peritura di fronte allo sconfinato e al perenne. Essa fiorisce sul suolo di un paesaggio esattamente delimitabile, al quale resta radicata come una pianta. Una civiltà muore quando la sua anima ha realizzato la somma delle sue possibilità sotto specie di popoli, lingue, forme di fede, arti Stati, scienze; essa allora si riconfondecon l’elemento animico primordiale. Ma finché essa vive, la sua esistenza nella successione delle grandi epoche, che contrassegnano con tratti decisi la sua progressiva realizzazione, è una lotta intima e appassionata per l’affermazione dell’idea contro le potenze del caos all’esterno, così come contro l’inconscio all’interno, ove tali potenze si ritirano irate. Oswald Spengler, da “Il Tramonto dell’Occidente”, traduzione italiana edita da Guanda nel 1991 ![]()
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