TEATRO ALLA SCALA
Trentun brani scelti nell’arco musicale di due secoli sono stati i protagonisti della serata-evento della Scala per la prima di Sant’Ambrogio 2020. Il tutto si è visto sulla rete ammiraglia RAI, con collegamenti esteri e in streaming. Molti i cantanti invitati dallo stesso maestro Chailly che hanno ricreato celebri pagine operistiche di Verdi, Donizetti, Bizet, Puccini, Giordano, Rossini. Ma Vittorio Grigolo, Rosa Feola, Juan Diego Florez, Carlo Alvarez, Placido Domingo e Roberto Alagna sono riusciti, nelle loro performance, a offrire particolari vibrazioni che hanno oltrepassato lo schermo, anche per la difficile posizione assunta dal maestro Chailly che dava loro le spalle. Ma non solo. Il regista Davide Livermore ha per ognuno creato delle particolari scenografie, di diversi registri, più tradizionali, più tecniche, ma senza nessun fil rouge che le legava. Nemmeno gli interventi chiesti agli attori hanno fatto da collante, anzi hanno ancora di più evidenziato quanto quasi tutto fosse preregistrato. E’ mancato quel dietro le quinte che in questa occasione, così ricreata, avrebbe vivacizzato l’offerta. Nessun elemento dava l’idea della diretta né la Carlucci né Vespa, che hanno introdotto e chiuso la serata, che forse avrebbe avuto maggior slancio se ci fosse stato solo Massimo Popolizio, dal piglio ottocentesco, così a suo agio tra i decori dorati del Teatro. La danza, ben presentata dal nuovo direttore Manuel Legris e da un pugno di primi ballerini, ha dato un forte impulso allo spettacolo a metà programma. Roberto Bolle ripresentava il suo celebre Waves di Massimiliano Volpini, che sempre affascina con le sue luminosità spaziali, come l’evergreen di Nureyev, quel passo a due dallo Schiaccianoci ben ballato da Nicoletta Manni e Timofej. Adrijashenko. Ma è stata l’unica novità della serata, il passo a cinque su musiche di Verdi coreografato da Legris, ha rapito l’attenzione. Ben costruito sulle capacità di Claudio Coviello, Virna Toppi, Martina Arduino, Nicola Del Freo, Marco Agostino, il brano è apparso fresco e vivace e le note di Verdi sotto la bacchetta di Michele Gamba, sono sembrate una piuma e una speranza di ritrovarci tutti a riveder le stelle, tutti insieme, artisti e pubblico. MILANOLTRE 2020
In chiusura del Festival MilanOltre, festeggiamenti per i 25 anni della compagnia romana Spellbound Contemporary Ballet, che portando particolari brani, ha esaltato l’ottima preparazione dei suoi danzatori. Osservando il protocollo sportivo e il monitoraggio degli interpreti, si è potuto proporre al pubblico coreografie invariate e senza mascherina. Un passo avanti verso una normalità che ci manca. Mario Astolfi, coreografo e fondatore della compagnia ha proposto due sue creazioni, una dedicata a Maria Cossu, l’interprete che ha seguito tutto il percorso della compagnia, e che legge meravigliosamente il suo lessico. Chiusura con Wonder Baazar, un pensiero forte verso il desiderio di cambiare e l’incapacità di attuarlo. Abbastanza simile all’apertura della serata affidata a Marte, un nuovo lavoro del coreografo di Valencia Marcos Morau, dal titolo Marte. Un approccio ricco di aspettative per questo pianeta da parte di un gruppo di giovani che invece ne sarà deluso. Bravissimi gli esecutori di questi tre brani che meriterebbero situazioni meno penalizzanti e costumi meno mortificanti. Vola l’atteso assolo dell’olandese Marco Goecke, interpretato da un ottimo elemento della compagnia, Marco La Terza. Affi, creato nel 2006 è stato subito successo ed eseguito da diversi danzatori. La Terza si è meritato tutto il plauso del pubblico per questi 15 minuti adrenalinici. Sarà un brano che presto altri vorranno danzare, perché sa unire perfezione classica e velocità contemporanea, ma lascia parecchio spazio a una personale interpretazione. Aurora Marsotto TEATROALLASCALA
L’orchestra è collocata in palcoscenico, sul fondo. La sua buca è stata chiusa per offrire maggior spazio di azione ai danzatori che si muovono anche in proscenio. Il pubblico è distanziato ampiamente e mascherato secondo le regole anti-covid, mentre i danzatori, tamponati precedentemente e negativi, ne sono finalmente privi. Ecco la ripartenza della Danza alla Scala. Con queste direttive la serata potrebbe sembrare fredda e rigida. Invece il Gala offre momenti di danza di grande emozione, riuscendo a far dimenticare il difficile momento. Lo spettacolo decolla dal secondo brano presentato, la novità creata per l’occasione dal coreografo Mauro Bigonzetti. Do a Duet è un passo a due femminile interpretato da Antonella Albano e Maria Celeste Losa. Due fisicità diverse che si compenetrano con ritmo dialogando meravigliosamente con l’orchestra. Poco adatto, invece alla serata così concepita, è il passo a tre tratto dal Corsaro, portato in scena da Martina Arduino, Marco Agostino e Federico Fresi, che ha anche risentito della lunga pausa. Chi, invece, è riuscito a calarsi con grande maestria nel personaggio, regalando al pubblico uno dei pezzi più belli della serata, è stato Claudio Coviello, nell’assolo che Rudolf Nureyev creò per se stesso nella sua versione della Bella Addormenta. Solo, al centro della scena, circondato dai musici, ha offerto una esecuzione struggente e d’alta classe. Frizzante è stato l’omaggio a Zizi Jeanmaire, recentemente scomparsa. E non tanto per il pezzo, la Carmen firmata da Roland Petit, rappresentata dalla celebre scena “della stanza”, quanto dall’intenso dialogo ben costruito dei due interpreti, Nicoletta Manni e Timofej Andrijashenko. Segue l’ étoile Svetlana Zakharova nella Morte del cigno, già presentata alla Scala. Brano che meriterebbe una lettura più morbida. Poi ecco Alessandra Ferri che con Federico Bonelli, principal al Royal Ballet, si prende la scena dell’intera serata. Danzano nel celebre passo a due tratto da Le Parc di Angelin Preljocaj. E’ una costruzione perfetta per i due interpreti, che ne sanno esaltare tutte le componenti, dolcezza, sensualità, aristocrazia – siamo nei giardini di Versaille. Un bel ritorno della Ferri alla Scala. Roberto Bolle ha poi chiuso la serata alzandone la temperatura con il suo Bolero, di particolare efficacia perché direttamente in relazione con il pubblico e non con il direttore d’orchestra, come Béjart l’aveva concepito. Ma allora, alla prima, in scena c’era una donna, la sensuale Dufka Sifnios. Aurora Marsotto |
![]() Una civiltà nasce nel punto in cui una grande anima si desta dallo stato della psichicità primordiale di una umanità eternamente giovane e si distacca, forma dall’informe, realtà limitata e peritura di fronte allo sconfinato e al perenne. Essa fiorisce sul suolo di un paesaggio esattamente delimitabile, al quale resta radicata come una pianta. Una civiltà muore quando la sua anima ha realizzato la somma delle sue possibilità sotto specie di popoli, lingue, forme di fede, arti Stati, scienze; essa allora si riconfondecon l’elemento animico primordiale. Ma finché essa vive, la sua esistenza nella successione delle grandi epoche, che contrassegnano con tratti decisi la sua progressiva realizzazione, è una lotta intima e appassionata per l’affermazione dell’idea contro le potenze del caos all’esterno, così come contro l’inconscio all’interno, ove tali potenze si ritirano irate. Oswald Spengler, da “Il Tramonto dell’Occidente”, traduzione italiana edita da Guanda nel 1991 ![]()
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